Gli aumenti del 35% hanno comportato disagi e tagli. Per coprire gli aumenti, lo Stato ha bruciato quasi 800 milioni accantonati per l’acquisto di nuovi treni.
L’amministratore delegato delle Ferrovie dello Stato non perde occasione per recriminare la carenza di fondi e la mancanza di investimenti per treni e ferrovie da parte dello Stato.
L’ultima volta in ordine di tempo, Mauro Moretti ce ne ha fatto memoria l’11 febbraio, alla presentazione di “Treno Verde 2014”, iniziativa per controllare l’inquinamento nelle città e realizzata in collaborazione con Legambiente. «Da più di dieci anni», ha lamentato Moretti, «non riceviamo un soldo da parte dello Stato per treni nuovi».
Ho pensato che un po’ di fact-checking sulle affermazioni di Moretti potesse aiutare a capire cosa sta succedendo nelle ferrovie, soprattutto nelle regioni e magari a verificare se l’amministratore delegato, davanti alla consueta selva di microfoni, non sia stato tentato a forzare le proprie affermazioni.
A sorpresa, il risultato della breve ricerca dà ragione a Moretti. E’ vero, da circa 10 anni, lo Stato non versa alcun finanziamento alle Ferrovie dello Stato per nuovi treni. Le buone notizie finiscono qui. Perché? Lo Stato nell’ultima decade non ha investito in quello che tecnicamente è classificato come “materiale rotabile”, perché ha avallato una ristrutturazione del sistema ferrovia grazie al quale il Gruppo FSI è riuscito a portare i bilanci in utile e ha utilizzato i soldi accantonati per l’acquisto di nuovi treni per la copertura dei contratti di servizio tra le Regioni e Trenitalia.
La ristrutturazione. La ristrutturazione e il risanamento dei conti del gruppo FS passa attraverso il calo degli addetti, l’incremento dei treni sull’alta velocità – definito come servizi a mercato, il dimezzamento dei servizi di lunga percorrenza – definito servizio universale, e una combinazione di aumento dei costi del servizio regionale pari a circa il 35 per cento, accompagnata da un taglio generalizzato dei servizi.
Il personale e la rete. In pochi anni, il personale FS scende dai 99 mila dipendenti del 2006 ai 71.191 di metà 2013. I chilometri di rete restano sostanzialmente invariati, 16.742. Per fare un raffronto, in Germania i km sono 33.723 mila e gli addetti superano i 284 mila, mentre in Francia i dipendenti della SNCF sono 250 mila per 30 mila chilometri. In definitiva, FSI gestisce metà della rete di Francia e Germania con un quarto del personale. Analogamente al personale, è calata la disponibilità di materiale rotabile. Dimezzati i carri merce, passati dagli oltre 48 mila del 2004 ai 25.665 del 2012, sono diminuite le locomotive (da 2.280 a 1.731) e le carrozze viaggiatori (da 8.010 a 6.288).
Le conseguenze della menzionata ristrutturazione ha portato il Gruppo FS a fare utili negli ultimi due bilanci e ad avere risorse finanziare proprie da investire in nuovi treni ad alta velocità. A farne le spese è stata l’offerta di treni sulla lunga percorrenza, eliminati o ridotti al lumicino. Nel giro di pochi anni sono spariti tutti gli espressi, è stata vaporizzata la gran parte dei treni notturni che collegavano il nord con il sud e la Sicilia e sono stati drasticamente ridotti gli Intercity. Nel 2014 il servizio lunga percorrenza è strutturato in servizi a mercato – 87 treni Frecciarossa, 58 treni Frecciargento, 86 treni Frecciabianca; servizio universale – 96 treni Intercity, 24 treni notte, 6 bus.
Tolta l’alta velocità, che si paga da sola anche grazie allo stratagemma di trasformare la gran parte degli Intercity in Frecciabianca (con conseguente aumento del prezzo dei biglietti), eliminata metà degli oltre 230 treni a lunga percorrenza ancora presenti nell’orario di metà degli anni Duemila, cosa resta? Il servizio regionale, poco più di 9.000 treni al giorno (9.191 nel 2013) che sono di competenza delle Regioni.
Definito il quadro in cui opera il Gruppo FSI, possiamo tornare alle lamentele di Moretti, ovvero l’assenza di finanziamenti per nuovi treni. Ribadisco quanto detto in precedenza: l’amministratore delegato dice il vero quando afferma che lo Stato non ha messo direttamente fondi a disposizione di FSI per l’acquisto di treni. Tuttavia, le Regioni con l’attuazione dei decreti “Bassanini” operativi con il DPCM del 16-11-2000, dall’anno 2000 hanno in carico il servizio regionale, pagano il servizio e, in misura crescente, investono in nuovo materiale rotabile, cioè nuovi treni, che in buona parte rientra poi nella disponibilità di Trenitalia.
Questa la somma degli investimenti in carrozze, locomotive e treni completi fatti dalle Regioni Italiane negli ultimi quattro anni, secondo i dati rivelati dalle indagini Pendolaria di Legambiente: 203.050.000 euro nel 2010, 305.315.000 euro nel 2011, 319.420.000 euro nel 2012, 347.321.000 euro nel 2013.
Moretti non ricorda pubblicamente queste cifre e non spiega perché lo Stato non abbia le risorse economiche per acquistare nuovi treni. In realtà, i governi succedutisi nello scorso decennio avevano accantonato fondi per l’acquisto di nuovo materiale rotabile. Però li hanno utilizzati per pagare il servizio regionale, che è come se una famiglia pagasse le bollette con i soldi messi da parte per la manutenzione della casa. Come è potuto accadere?
Il catalogo. Nel tentativo di recuperare produttività e costi, nel 2007 Trenitalia introduce il concetto di “catalogo” nella vendita dei servizi alle Regioni. La novità principale è la distinzione di tre voci di costo: pedaggio (a Rfi), costo di trasporto (il treno) e servizi accessori (es. le biglietterie). La seconda voce è particolarmente complessa, perché prevede il passaggio da costo a chilometro a costo orario, dove la voce principale è costituita dal personale (macchinisti e capitreno). La nuova vendita a catalogo prevede poi una serie di maggiorazioni per servizi notturni, treni poco frequentati, servizi festivi e servizi fatti con treni nuovi o rimodernati. Per chi vuole approfondire rimando all’analisi dettagliata pubblicata da Giorgio Stagni sul proprio sito Internet. Stagni lavora da oltre dieci anni all’ufficio del Servizio Ferroviario della Regione Lombardia, la struttura che elabora i contratti di servizio con le imprese ferroviarie. Per tutti gli altri, riporto il risultato finale: il costo dei contratti di servizio tra le regioni e Trenitalia aumenta di colpo del 30-35%.
Gli effetti sono talvolta paradossali, come rilevato nel 2013 dall’Osservatorio della spesa e delle politiche pubbliche del Consiglio regionale del Veneto. Il rapporto dell’Osservatorio ha elencato una serie di criticità nel contratto di servizio con Trenitalia: 1) il corrispettivo dovuto a Trenitalia è aumentato in modo assai marcato (di oltre il 30%); 2) la Regione del Veneto, come le altre regioni, è stata sostanzialmente costretta a sottoscrivere il contratto, in quanto, col decreto-legge 185/2008, lo Stato subordinò proprio alla sottoscrizione di tale contratto l’erogazione di indispensabili risorse aggiuntive per il trasporto regionale ferroviario (per il Veneto si trattava di 31,5 milioni di euro), risorse che, tra l’altro, furono girate direttamente a Trenitalia senza passare perciò attraverso i bilanci regionali; 3) la fatturazione ad ore può, in linea di principio, rappresentare un incentivo per Trenitalia ad aumentare i tempi di percorrenza; 4) il catalogo non permette affatto alle regioni di scegliere cosa acquistare, in quanto esse sono costrette a comprare non i singoli treni ma interi turni del materiale rotabile; 5) il materiale rotabile viene considerato nuovo e tariffato di conseguenza anche se ricondizionato negli ultimi dodici anni; 6) la maggiorazione per bassa frequentazione non è logicamente coerente col disegno del contratto; 7) la Regione non è messa nelle condizioni di valutare la congruità dei corrispettivi richiesti, in quanto Trenitalia oppone la propria difesa del “segreto industriale” contro una maggiore trasparenza. A tal proposito, vale la pena rilevare che il prezzo base del contratto a catalogo è il medesimo in tutta Italia, il che, data la grande differenziazione morfologica del Paese, porta a dubitare dell’effettiva aderenza dei costi imputati a quelli effettivi.
Le risorse economiche. Le risorse per il trasporto ferroviario regionale sono fondi ripartiti dallo Stato alle Regioni. Dal 2001 al 2010 si è trattato di 1.222 milioni di euro l’anno, previsti da due norme, la legge 388 del 2000 (41 milioni) e il Decreto del presidente del Consiglio dei Ministri del 16 novembre 2000 (1.181 milioni). A questi, dal 2007 al 2011, vanno sommate risorse aggiuntive che lo Stato ha girato direttamente a Trenitalia, a partire dalla Legge finanziaria 296/2006, pari complessivamente a 1.961 milioni nei cinque anni per coprire i maggiori costi del “catalogo”. Nel 2011, la gran parte dei fondi previsti dal decreto di regionalizzazione delle ferrovie di undici anni prima è ridotta e sostituita da un Fondo per il trasporto pubblico locale di 400 milioni di euro e da risorse accantonate per l’acquisto di nuovi treni pari a 425 milioni di euro. Così, nel camino della spesa corrente, bruciano gli accantonamenti fatti negli anni precedenti per il rinnovo di carrozze, locomotive e treni completi. Per l’anno successivo la musica cambia di poco. Con il Decreto Legge 201/2011 il governo porta il fondo TPL istituito l’anno prima a 1200 milioni. Contemporaneamente sono azzerate le precedenti risorse. A questi fondi, in base all’accordo tra Stato e Regioni del 21 dicembre 2011, si aggiungono altri 314 milioni di euro accantonati per il rinnovo del materiale rotabile, più 86 milioni di euro che il governo converte in spesa corrente per i contratti di servizio e a cui le Regioni aggiungono 148 milioni di euro recuperati dal fondo per l’edilizia sanitaria. Per farla breve, le risorse per il servizio regionale disponibili per Trenitalia nel 2001 erano di 1.222 milioni, nel 2012 sono state 1.789 milioni di euro. Quindi, in dodici anni abbiamo registrato un aumento delle risorse economiche per Trenitalia superiore al 46 per cento.
In cambio di cosa? Di un taglio generalizzato dei servizi ferroviari. Infatti, poiché il nuovo fondo non è vincolato (i decreti parlano di TPL “anche” ferroviario), le Regioni sono incentivate a sopprimere i servizi ferroviari per sostituirli con autobus. Il Piemonte ne approfitta immediatamente e il 17 giugno 2012, in coincidenza con il cambio di orario estivo, chiude il 24 per cento della propria rete ferroviaria. Undici linee, per complessivi 460 chilometri, spariscono nel nulla. Nel corso del 2013 se ne aggiungono altre due e, come riferisce il rapporto Pendolaria 2013 di Legambiente, gli utenti giornalieri calano da 236 mila a 209 mila. Non va meglio in altre regioni che sperimentano un taglio dei servizi generalizzato, dal 3 per cento dell’Umbria fino al 21 per cento dell’Abruzzo, passando per il 19 per cento della Campania e il 20 per cento della Liguria combinato ad aumenti tariffari che superano il 23 per cento in Lombardia e addirittura il 41 per cento in Liguria.
In conclusione, è vero che lo Stato non ha messo direttamente a disposizione di Trenitalia risorse economiche destinate all’acquisto di nuovi treni, come più volte ricordato dall’amministratore delegato di FSI, Mauro Moretti. Però, dal 2000 al 2012 ha aumentato di quasi la metà i fondi per il servizio regionale, utilizzando anche gli accantonamenti inizialmente previsti per rinnovare la flotta di carrozze e locomotive. Queste risorse hanno, di fatto, coperto gli incrementi di costo pretesi da Trenitalia nei confronti delle Regioni con l’introduzione del “catalogo”, nel 2007. Inoltre, i governi hanno svincolato tali risorse dal trasporto ferroviario generando nell’ultimo biennio chiusure a ripetizione di intere linee ferroviarie e riducendo drasticamente i servizi su molte altre. Nel frattempo, il costo dei biglietti e degli abbonamenti è continuato a salire. Salvo un deciso cambio di rotta nelle politiche dei trasporti, per i pendolari italiani del nord, del centro e del sud, si profila un altro decennio di grandi difficoltà.
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